Esterovestizione: il rischio invisibile

Esterovestizione: il rischio invisibile
Viviamo in un’epoca in cui sempre più attività si spostano online. Lavorare da remoto è diventato normale, e per molti imprenditori o freelance si apre una possibilità concreta: aprire una società all’estero. È una tentazione forte, soprattutto se si guardano i vantaggi fiscali promessi da alcune giurisdizioni. Ma ciò che sulla carta sembra conveniente, non sempre lo è davvero.
C’è infatti un rischio reale, che molti sottovalutano. Si chiama esterovestizione. Succede quando una società viene costituita in un altro paese, ma in realtà è gestita dall’Italia. Non conta solo dove si trova la sede legale: ciò che importa è dove si prendono le decisioni, dove si lavora, dove sono conservati i documenti e dove si svolge davvero l’attività. Se tutto accade in Italia, anche se l’impresa è registrata altrove, per il fisco italiano quella società è italiana.
E non si tratta di una formalità. In caso di controllo, l’Agenzia delle Entrate può ricalcolare tutto. Le imposte vengono richieste in Italia, con interessi e sanzioni. E se la situazione appare volutamente costruita, può scattare anche un’accusa penale per dichiarazione fraudolenta. Un rischio serio, che non si può ignorare.
Detto questo, non bisogna pensare che tutte le società estere siano irregolari. Anzi. Ci sono moltissime situazioni in cui è perfettamente legittimo operare fuori dai confini nazionali. Si può scegliere un paese per motivi di mercato, di lingua, di logistica o anche di fiscalità, a patto che ci sia coerenza tra ciò che si dichiara e ciò che si fa.
Il problema nasce quando la sede estera è solo un’apparenza. Quando dietro a un indirizzo estero c’è in realtà un’attività gestita dal salotto di casa in Italia. Magari con un commercialista all’estero che riceve la posta, o un servizio online che crea la struttura in pochi minuti. In casi così, il rischio di essere contestati è concreto.
Per essere davvero in regola serve sostanza. Una sede reale. Persone che ci lavorano. Riunioni documentate, conti bancari operativi nel paese scelto, contratti coerenti con il contesto. Insomma, la vita dell’impresa deve esistere davvero là dove viene dichiarata.
Negli ultimi anni si è diffusa l’idea che si possa aprire una società all’estero con pochi click, magari restando comodamente in Italia. E in apparenza tutto funziona. Ma se si lavora ogni giorno da qui, se si usano strumenti italiani, se i clienti sono qui, se il controllo è qui, allora quella struttura rischia di crollare alla prima verifica.
Aprire una società fuori dall’Italia è possibile, e in certi casi è la scelta giusta. Ma va fatto con consapevolezza. Non è solo una questione di moduli da compilare: è una strategia, che deve poggiare su basi reali. Serve coerenza, serve pianificazione, e soprattutto serve onestà intellettuale.
Perché alla fine, ciò che protegge davvero un’impresa, non è la scorciatoia più rapida. È la solidità del percorso che si sceglie di costruire.